Assunta la sarta 


Osservando un filo penzolante dalla cucitura del mio piumino, mi è balenato di nuovo in mente il sogno di stanotte. Ho sognato una vecchia amica di mia madre proprietaria di una sartoria di quartiere. Sì, lei era proprio una sarta di professione e gestiva un negozietto adibito soltanto a cartamodelli, cuciture, orli, realizzazioni d’abiti e riparazioni e modifiche di ogni tipo. Nel sogno rientravo in quel piccolo locale dopo tantissimi anni – non ricordo per quale motivo, forse per chiederle se le servisse un’assistente (strano considerando che mi limito a fare l’orlo ai pantaloni e ad attaccare bottoni, anche se quest’ultima pratica mi riesce meglio in senso metaforico 😛) – e nulla era cambiato, né lei né la disposizione degli elementi costitutivi dell’ambiente: un manichino spoglio con qualche spillo appuntato addosso e un centimetro attorno al collo, una moquette verdina piena zeppa di fili e pezzi di stoffa rimanenti, panni ammucchiati ovunque, una scrivania di legno con un specchio applicato alla facciata davanti, molti specchi ovunque, due camerini ampi, delle scale che portavano ad una sorta di ripostiglio, un angolo illuminato e leggermente in rientranza dove era posizionato uno sgabello che poteva trasformarsi in scaletta al bisogno e dove si intrattenevano seduti le ospiti/amiche della proprietaria e una sedia normale posta invece accanto alla parete opposta. Ricordo il cassetto della scrivania sempre mezzo aperto e la ricerca costante di aghi, forbici, fili o quant’altro potesse servirle per il lavoro, una macchina da cucire piazzata lì sopra, lei china con i suoi occhialoni che le dilatavano gli occhi, a mantenere il pezzo di stoffa saldo e a farlo scorrere sotto la macchina. Quando si concedeva qualche minuto di tregua prendeva le pinzette per togliersi le sopracciglia e ordinava al bar cappuccini e cornetti da offrire alle amiche che venivano a tenerle compagnia. Mi ricordo che il primo cliente della nostra famiglia fu mio nonno, e in effetti vi si recavano molti uomini per farsi sistemare i loro completi. Ricordo pure una maledettissima porta a vetro contro cui urtai pesantemente un giorno che, presa dall’entusiasmo di rivederla, per volerla salutare manifestando quello stesso trasporto, le corsi incontro e trovai invece l’ostacolo: la porta era chiusa. Io me la cavai con un bernoccolo ma portai addosso un senso d’umiliazione raro almeno per la prima ora successiva all’incidente. L’ho sognata in forma smagliante e con un’attività ancora in pieno fermento. Qualcosa di anacronistico come le mercerie. Un ricordo legato all’infanzia che racchiude un buon periodo di vita. Chissà cosa mi ha portato a sognarlo. Mi piacerebbe tornarci davvero e trovarci tutto intatto e uguale a come era allora. 

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